Tempo fa un bell’articolo de Il Post scritto durante l’emergenza esondazioni dello scorso autunno si soffermava sulla situazione di Milano e rifletteva sullo scarso ruolo dei corsi d’acqua nella città meneghina: malgrado siano cinque i fiumi che scorrono in città, la maggior parte lo fa in modo invisibile.
Per capire la storia dei fiumi perduti bisogna fare un passo indietro e osservare l’evoluzione delle nostre città proto industriali. In passato la presenza di un corso d’acqua era fondamentale per l’approvvigionamento della popolazione e l’irrigazione dei campi, ma anche per il funzionamento di mulini e concerie. Tuttavia a partire dalla Rivoluzione industriale, l’aumento della popolazione urbana e la nascita delle prime grandi fabbriche ebbero un effetto terribile sui corsi d’acqua urbani: da fonti di vita diventarono putridi e malsani portatori di veleni e malattie.
Il caso più emblematico fu probabilmente quello di Londra, al tempo città percorsa non solo dal Tamigi ma anche da una serie di canali e affluenti. Quando verso il 1858 l’odore dei miasmi divenne insopportabile e le morti per colera si contarono a migliaia, si procedette alla creazione di una serie di canali interrati fatti di mattoni, presso cui far scorrere fiumi, torrenti e acque di scolo. Questa soluzione divenne ben presto un modello da seguire, anche perché facilitava l’espansione urbanistica. Pertanto molti corsi d’acqua in tutto il mondo vennero progressivamente inghiottiti dal manto stradale e racchiusi dentro dei tubi. In altri casi il corso del fiume venne semplicemente cancellato, il letto ricoperto di detriti e sepolto da una colata di cemento. Ma sia per l’eccessiva impermeabilizzazione causata dalla cementificazione, sia perché le dimensioni dei tubi non sono sufficienti a contenere i corsi d’acqua ingrossati da piogge dalla portata eccezionale – fenomeno negli ultimi anni sempre più frequente -, molte città si stanno rivelando vulnerabili alle esondazioni e stanno soffrendo danni milionari. Ovviamente, decenni di speculazione edilizia e incuria nella pianificazione idro-geologica non aiutano.
Il documentario “Lost rivers” affronta il tema dei fiumi dimenticati e racconta di come in varie parti del mondo si inizi a sviluppare un approccio teso più a far fare alla natura il suo corso, piuttosto che contenerla o ingabbiarla. E volete saperlo? Funziona. Infatti l’opera della regista canadese Caroline Bacle offre degli esempi di come alcune tra le soluzioni più economiche per mettere in sicurezza le città da piene ed esondazioni sarebbero anche le più sostenibili. Prendete il fiume Quaggy, che scorre sotto la superficie stradale dentro un canale coperto nella parte sud-est di Londra e che in passato è stato responsabile di alluvioni nelle zone abitate a valle. Un movimento cittadino è riuscito a convincere le istituzioni che, piuttosto che una canalizzazione dalla maggiore capienza, un’alternativa poteva essere semmai liberare il Quaggy dal cemento e permettergli di riversarsi all’interno di un’area circoscritta in un parco, con il risultato di creare un eco-sistema paludoso dal grande valore. Quest’idea si è poi dimostrata molto più economica rispetto a un’ulteriore canalizzazione che avrebbe continuato a imbrigliare sotto terra il corso d’acqua.
il documentario si sofferma su un altro caso interessante, quello di Seul. Quando negli anni ‘60 l’economia coreana esplose, le città divennero affamate di nuovi spazi da convertire in strade e autostrade. Il torrente Cheonggyecheon, simbolo di povertà a causa della baraccopoli che si trovava al suo lato, venne felicemente sacrificato per costruire un’autostrada da sedici corsie, vero simbolo del progresso. Ma come sempre succede, la grande autostrada favorì ancora di più il traffico, che diventò fuori controllo e ben presto complicò l’ingresso e l’uscita dalla città. Nel 1991 nasceva l’idea di riportare in luce il corso d’acqua ed eliminare l’autostrada, soprattutto in seguito a una riflessione su un diverso tipo di sviluppo e trasporto urbano. Alla fine l’autostrada è stata smantellata e il traffico automobilistico sostituito in gran parte da una servizio di bus a trasporto rapido. E ora il torrente scorre per 6 km nel cuore della città, creando un eco-sistema all’interno del quale circa 800 specie hanno trovato un habitat. Dalla creazione del parco urbano, le temperature e il livelli di polveri sottili nel centro cittadino si sono ridotte drasticamente. Paradossalmente però, l’obiettivo di creare uno spazio ricreativo per i cittadini ha ridimensionato la sostenibilità del progetto: infatti il Cheonggyecheon è un torrente la cui portata dipende dalle piogge, ma il suo letto a secco per vari mesi all’anno non sarebbe abbastanza coreografico. Ecco quindi che l’acqua viene pompata da un fiume vicino, con il risultato che per far scorrere continuamente l’acqua nel letto viene usata ogni giorno l’elettricità sufficiente ad alimentare 4500 abitazioni.
Il documentario canadese dà anche il giusto spazio a quella che può essere considerata una tra le più interessanti esperienze legate alla riscoperta dei fiumi perduti: l’associazione culturale Brescia underground. Il gruppo nasce dall’iniziativa di un gruppo di ragazzi affascinati dal mondo dei fiumi sotterranei, di cui Brescia è incredibilmente ricca. Non tutti sanno infatti che sotto la città ne passano addirittura sette. Brescia underground ha avuto una funzione molto importante nell’esplorazione del sottosuolo cittadino e nel rendere pubbliche le tracce di un passato dimenticato fatto di corsi d’acqua, ponti medievali o romani, antichi accessi ai mulini o alle concerie. Manco a dirlo, la parte più affascinante del lavoro dell’associazione è aprire i tombini e portare sotto terra i bresciani a vedere coi propri occhi tutto ciò che scorre quotidianamente sotto i loro piedi. Anche se, va detto, le visite organizzate da Brescia underground potrebbero non essere esattamente come in questo video:
Visto che ci stiamo trasformando sempre più in una specie urbana – il 78% dei giovani nel mondo vive all’interno di una città -, non abbiamo altra scelta che rendere gli spazi urbani più eco-compatibili. E ripristinare condizioni ecologicamente dignitose all’interno di fiumi e corsi d’acqua potrebbe essere un buon inizio per ricreare una connessione con quella natura che, seppure nascosta, è ancora presente nei nostri centri abitati.