Qualche settimana fa ho avuto l’opportunità di chiacchierare con un immigrato senegalese che abita vicino a casa dei miei genitori. Una storia non poi così diversa da tante altre: una vita lontano da casa da ormai 16 anni, la famiglia e la moglie in Africa, uno o massimo due viaggi all’anno per visitarli. Come quasi ogni giorno, sta all’angolo di un tabacchino, aspettando di vendere un paio di calze, per quanto senza troppa convinzione: ha ormai capito che chi abita nel quartiere preferisce passargli qualche soldo spontaneamente piuttosto che dover dire di no quotidianamente alle sue offerte.
La cosa che più mi ha colpito della sua storia è il trasporto con cui parlava della vita in campagna. Solo da poco infatti si era trasferito a Sassari, fino a qualche anno fa lavorava fuori città e aiutava un signore anziano, che poi è morto, a lavorare la terra. I figli, poco interessati alla zappa, hanno venduto tutto e lui ha dovuto trovarsi altro da fare per vivere e mandare qualche spicciolo a casa.
Probabilmente guadagnarsi da vivere come bracciante gli dava molta più dignità, e un piccolo appezzamento di terra lo aiuterebbe di più di quelle mance che i residenti nel quartiere gli passano regolarmente, che altro non sono che una forma elegante di elemosina.
Quanta terra incolta potrebbe essere messa a disposizione di chi non ce l’ha ma vorrebbe coltivarla? Quante persone dalle risorse limitate potrebbero ottenere una seppur minima auto-sufficienza alimentare e impiegare il proprio tempo in modo più produttivo? Quante persone anziane con tanto tempo libero saprebbero come coltivare ortaggi e sarebbero felici di mettere a disposizione le loro conoscenze con degli aspiranti contadini della domenica?
In altri paesi questa domanda se la sono già fatta, e hanno trovato una soluzione al passo coi tempi. Nel 2009 lo chef televisivo inglese Hugh Fearnley-Whittingstall, molto impegnato nel divulgare l’agricoltura e l’alimentazione biologica, all’interno del suo programma televisivo River Cottage, lanciò un’iniziativa il cui obiettivo era mettere in contatto chi aveva un terreno da mettere a disposizione – piccolo o grande non importa -, chi aveva voglia di metterci mano, ma anche chi poteva prestare attrezzi o saperi. Il tutto, ovviamente, in forma gratuita. Le potenzialità di internet hanno reso l’idea molto più efficace e diffusa, al punto che la piattaforma Landshare, tra Regno Unito, Canada e Australia conta oggi quasi 75.000 membri.
Nei paesi anglofoni Landshare non è l’unica piattaforma disponibile per trovare della terra da coltivare, negli Stati Uniti sono molto diffuse anche wepatch.org e sharedearth.com.
E in Italia? Ancora niente. O forse no. Esistono ovviamente molte iniziative di associazioni, privati cittadini e amministrazioni comunali che mettono a disposizione appezzamenti da coltivare, ma manca ancora una piattaforma internet che sia in grado di far incontrare in modo efficace domanda e offerta.
Vanno segnalate tuttavia alcune iniziative interessanti, legate piuttosto al recupero di spazi abbandonati. Segugi urbani-City hounds è nato dall’idea di tre architette romane, il cui obiettivo è prima creare una mappatura online degli spazi abbandonati nella città di Roma, per restituirli poi alla cittadinanza attraverso una gestione temporanea dal basso.
Temporiuso è invece un’associazione di Milano per la promozione del riuso temporaneo di spazi abbandonati a fini culturali e artistici, ma anche per la realizzazione di atelier e botteghe per giovani artigiani con contratti ad uso temporaneo e a canone calmierato. In teoria non dovrebbe essere difficile, visto che sul loro sito viene calcolata nella sola Milano un’offerta di oltre 1 milione di mq di scali ferroviari abbandonati, circa 50 cascine e capannoni agricoli in disuso, oltre 70 edifici vuoti in città, mentre le agenzie immobiliari lamentano che circa 885.000 mq di uffici risultano sfitti.
Temporiuso è anche tra le promotrici di Re-bel Italy, un manifesto per il riuso di spazi abbandonati e sottoutilizzati.
Progetti di questo tipo potrebbero essere adattati anche alla domanda e offerta di spazio coltivabile, e ad ogni modo fanno ben sperare che piattaforme come Landshare vengano create presto anche in Italia. La sensibilità e l’interesse ci sono già, per ora mancano solo gli strumenti.