E se avessimo sbagliato tutto?

Dall’inizio degli anni ’90 l’ecologismo è entrato sempre più nella sfera quotidiana. Nelle scuole ci hanno insegnato l’importanza del riciclo e del rispetto della natura. Slogan  come “Pensa globalmente agisci localmente” e “Sii il cambiamento che vorresti vedere nel mondo” sono stati ripetuti talmente tanto da diventare dei mantra ormai privi di significato.

Malgrado ciò, credo sia sotto gli occhi di tutti che la situazione del pianeta da allora è soltanto peggiorata, tra perdita della biodiversità, clima instabile e maggiori rischi e insicurezze per gli esseri umani. Ogni anno poi, scopriamo che quello in corso è il più caldo dal 1880, ossia dall’anno in cui le temperature iniziarono a essere registrate sistematicamente.

Forse sarebbe il caso di iniziare a chiederci cosa abbiamo sbagliato.

Ho la sensazione che ci siamo fatti illudere per troppi anni dall’idea che semplicemente comprando un detersivo un po’ più ecologico e guidando auto ibride avremmo salvato il pianeta. Se tutti facessero poco, il risultato sarebbe grandissimo, ci siamo detti. Invece la triste verità è che se tutti facciamo poco, il risultato sarà minimo.

Per controllare l’aumento della temperatura del pianeta e consegnare la terra alle prossime generazioni in condizioni tali da garantirgli condizioni di vita dignitose, dovremmo ripensare il nostro stile di vita consumista in modo radicale. Su di noi pesa una responsabilità enorme, visto che siamo la prima generazione che sta vivendo sulla propria pelle le conseguenze dei cambiamenti climatici e l’ultima che potrà fare qualcosa per fermarli.

Come per qualsiasi altro problema, la maggior parte dei cittadini si aspetta che la responsabilità di arrestare l’inquinamento e i cambiamenti climatici spetti alla classe politica. Tuttavia quante delle persone che si aspettano dai governi una riduzione delle emissioni di gas serra si sono messe l’obiettivo di controllare la propria impronta ecologica? Quante persone hanno deciso di stabilire dei  limiti personali che non andrebbero superati, anche a costo di cambiare la propria dieta e prendere meno aerei?

Durante questo esame di coscienza, forse sarebbe il caso di iniziare a riflettere anche su come è stato portato avanti un certo attivismo ambientalista e quali risultati abbia raggiunto finora. Ho paura che, anche se dirlo può suonare impopolare, le grandi ONG ambientaliste come Greenpeace, 350.org e Avaaz abbiano in qualche modo fatto un grandissimo favore ai governi e alle grandi corporation. Se non esistessero organizzazioni di questo tipo a incanalare in modo sostanzialmente innocuo e annacquato la rabbia e la volontà di cambiare il sistema di molti giovani disillusi e arrabbiati, forse quelle energie sarebbero usate per percorsi di resistenza locali molto più efficaci.

Prendiamo la marcia per l’ambiente svoltasi lo scorso settembre a New York che ha raccolto più di 400.000 persone. La marcia, lanciata da 350.org e Avaaz, non portava con sé nessun discorso e nessuna richiesta. È stata semplicemente una passeggiata colorata che ha fatto contenti tutti: i governi e le grandi corporation, che vista l’innocuità dell’evento non hanno avuto problemi a supportarla, e gli attivisti, che invece hanno avuto per un giorno la sensazione di aver contribuito a salvare il pianeta.

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Oppure prendiamo Greenpeace, che da movimento basato sull’azione diretta si è trasformato sempre più in un’organizzazione burocratica che garantisce ai suoi volontari ben pochi margini di autonomia. Far parte di Greenpeace e molte altre organizzazioni simili ci fa sentire parte di un grande rivoluzione ambientalista,  in modo comodo e senza la necessità di sporcarci le mani. La verità è che realizzare banchetti e vendere magliette, far firmare petizioni, condividere video su Facebook e stendere striscioni  è ormai troppo poco, se pensiamo alla velocità con cui nel frattempo il sistema capitalista sta distruggendo il pianeta e la sua biodiversità.

L’esperienza di Occupy Wall Street e degli Indignados spagnoli mostra che, una volta abbandonate forme di attivismo burocratizzate e istituzionalizzate per forme più locali e dirette che mettano in discussione il modello economico neoliberista e provino a toccare i nervi scoperti del sistema, i governi fanno di tutto per reprimerle. Ma la salvezza del pianeta può venire solo dall’abbandono di un attivismo romantico e naif e il passaggio a forme di protesta differenti.

Nel dicembre del 2012 l’esperto di sistemi complessi Brad Werner ha presentato davanti a 24.000 esperti all’annuale convegno dell’associazione di Geofisica di San Francisco una relazione intitolata “La terra è f***uta?” Lo scienziato ha parlato di cose perlopiù incomprensibili a chi non è un espero in materia, ma il succo era abbastanza chiaro: il capitalismo globale ha sfruttato in modo così intensivo le risorse del pianeta che per reazione i “sistemi geoumani” sono diventati estremamente instabili. O detto in altri termini, siamo f***uti. Solo una dinamica nel suo modello computerizzato dava un barlume di speranza. Werner l’ha chiamata resistenza, riferendosi ai  gruppi che adottano dinamiche che non si integrano nella cultura capitalistica. Il geofisico americano si è riferito esplicitamente all’azione diretta ambientalista e ai sabotaggi compiuti dalle popolazioni indigene e da altre organizzazioni attiviste. Ai convegni di geofisica solitamente non  si lanciano appelli alla resistenza di massa e tanto meno all’azione diretta. Ma Werner è stato molto chiaro nello specificare che la sua non era un’opinione, ma la risposta a un problema geofisico: nel momento in cui un meccanismo economico sempre più fuori controllo sta mettendo a repentaglio l’eco-sistema della terra così come l’abbiamo conosciuto, oltreché la sicurezza degli esseri umani e delle prossime generazioni, solo un movimento di questo tipo potrebbe rappresentare l’unico elemento di frizione efficace in grado di rallentarlo.

Nel suo bel libro L’ecologia dei poveri, Joan Martínez Alier scrive: “A lungo la storia dell’ambientalismo ha coinciso essenzialmente con la storia di come le élites bianche dei paesi ricchi hanno scoperto la bellezza e la fragilità della natura, e di come hanno cercato di proteggerla”. Forse sarebbe ora di idealizzare la natura un po’ di meno, e vederla un po’ di più come la base materiale di sostentamento delle comunità. Per molte comunità indigene in lotta lo sfruttamento della natura significa spesso anche lo sfruttamento dei poveri e la liberazione dell’una non può avvenire senza giustizia per gli altri. I loro percorsi di resistenza hanno molto da insegnare anche a noi occidentali ambientalisti amanti della natura. Perché un ecologismo innocuo che non parla anche di giustizia sociale, finisce per essere dannoso tanto per gli umani, quanto per il pianeta.