La decisione del giudice del tribunale di Milano che ha decretato lo stop di Uberpop, l’applicazione per smartphone della compagnia americana che permette ai comuni cittadini di diventare autisti con il proprio mezzo privato e offrire passaggi a pagamento, ha causato una valanga di proteste, soprattutto tra chi iniziava a goderne i vantaggi. Infatti, davanti ai costi di un taxi, Uberpop rappresenta a detta di molti una nuova frontiera. Non a caso l’azienda americana nata nel 2009 a San Francisco descrive Uberpop “la declinazione collaborativa e low-cost di Uber”, ma anche “servizio di ride-sharing innovativo”. Il servizio pop dovrebbe anche garantire un vantaggio per l’ambiente: perché possedere l’auto, se si può chiedere il passaggio a chi ne ha già una e avrebbe percorso comunque quel tragitto?
La verità è che da un punto di vista ambientale, c’è il rischio esattamente opposto: abbassando le tariffe del trasporto privato, si incentivano le persone ad abbandonare quello pubblico. Su un articolo di Wired contrario allo stop, si intravedono già i segnali di questo trend: “Per pura combinazione, nell’ultimo fine settimana ho utilizzato un paio di volte Uberpop. A Roma il servizio non è disponibile, così lo sfrutto quando passo a Milano. Tragitti brevi di venerdì sera e sabato sera: da San Babila a Città studi e da Porta Romana ai Navigli. Dopo una giornata in giro per l’Expo e per il Wired Nex Fest con l’ufficio sulle spalle (diversi chili di zaino), l’idea di rinchiudermi in metropolitana anche di notte, nonostante il mio biglietto Atm da 10 corse pagato ben 13,80 euro, non mi esaltava. Così, con due tocchi e in pochi minuti, ho chiamato un’auto”.
Uber è forse l’azienda più conosciuta di quella che viene chiamata negli Stati Uniti sharing economy e in Italia consumo partecipato. La seconda più nota è probabilmente Airbnb, la piattaforma online che permette di affittare ad altri utenti una stanza del proprio appartamento come fosse un bed and breakfast. Ma ormai esistono applicazioni che offrono servizi di vario tipo: Taskrabbit per esempio dà la possibilità di trovare con pochi click qualcuno che ci faccia il bucato o ci porti a spasso il cane, oppure persone disposte a realizzare piccole riparazioni, farci la spesa e molto altro. Secondo i sostenitori della sharing economy, queste app sono un’àncora di salvataggio per chi che non riesce ad arrivare alla fine del mese. In tempi di crisi danno l’opportunità ai cittadini di trasformarsi in micro impreditori, facendo risparmiare il prossimo. Infatti con la sharing economy diventa più facile ottenere da persone comuni servizi, beni e prestazioni che in passato avremmo dovuto pagare molto di più rivolgendoci a dei professionisti.
O che in molti casi, avremmo ottenuto gratuitamente dalla nostra cerchia di parenti o amici.
In Italia il dibattito sulla sharing economy ruota soprattutto attorno all’evasione fiscale intrinseca a questi scambi economici informali. Negli Stati Uniti e in altri paesi, senza minimizzare questo aspetto, sembrano invece andare dritti al centro del problema. Il settimanale statunitense The Nation ha definito il concetto di sharing economy “capitalismo new age”: la piattaforma internet dà la possibilità di trarre un profitto da servizi che prima erano offerti solo da specialisti, mentre oggi vengono “democratizzati”: Abbasso le pastoie burocratiche, da un giorno all’altro anche io posso diventare riparatore, tassista, albergatore. Ci guadagno io e ci guadagni tu, ma attenzione: i soldi c’entrano fino a un certo punto. Se sto su Airbnb e su Uber è perché credo nei valori di condivisione e collaborazione.
Tuttavia, se guardiamo più da vicino la sharing economy, di fatto ci rendiamo conto che altro non è che un modo di fare soldi dalla vera cultura dello scambio e della condivisione. Cos’è infatti Uber, se non una versione a pagamento del concetto di car pooling, che nella sua formulazione originaria era assolutamente no-profit? E che dire di Airbnb, che in fondo usa la filosofia di Couchsurfing e Hospitality club, monetizzandola?
Ovviamente la realtà è più complessa: in passato sono stato un membro attivissimo di Couchsurfing, ospitando centinaia di persone per il puro piacere di farlo e senza aspettarmi niente in cambio. Poi per un periodo, a causa di ristrettezze economiche, ho messo una stanza dell’appartamento in cui vivevo su Airbnb. Ero diventato parte della sharing economy. Ma diciamocela tutta, stavo facendo ciò che facevo prima, solo che ora mi facevo pagare. In un momento di difficoltà è stato utile, ma se avessi potuto avrei continuato a ospitare gratuitamente, portando avanti la vera e unica forma di condivisione, quella gratuita. Intanto, mentre qualcuno riesce a sbarcare il lunario con Airbnb, quest’ultima è valutata in borsa 13 miliardi di dollari, poco di meno di Starwood, il colosso alberghiero che opera in più di 100 paesi e che opera sotto vari nomi, tra questi anche Sheraton.
Ancora una volta, l’articolo di The Nation colpisce nel segno: “Il consumo collaborativo è un bel modo per dei capitalisti rapaci di monetizzare la disperazione della gente in un’economia post-crisi, sembrando allo stesso tempo generosi ed evocando un senso di comunità tra una popolazione atomizzata”.
L’elemento d’innovazione della sharing economy è irreversibile. Indietro non si ritorna. Ma sicuramente piattaforme di questo tipo, per essere considerate socialmente più virtuose, dovrebbero essere di proprietà degli utenti, piuttosto che di un gruppo di capitalisti nella Sylicon Valley. Finchè il concetto di condivisione sarà evocato per far crescere il fatturato di un’azienda multimilionaria, sarà solo una presa per il culo.
E soprattutto, finchè vedremo come soluzione alla crisi economica accettare i lavori sempre più precari offerti da questo modello di sharing economy, piuttosto che chiedere un cambiamento economico che ci dia maggiori sicurezze e diritti, avremo solo fatto un passo indietro nelle conquiste sociali.