Significa scalare di marcia e si riferisce alla decisione di vivere vite più semplici, rinunciando al prestigio sociale e a uno stipendio sostanzioso. Ora arriva anche in Italia.

Anche se il rampantismo sociale degli anni’80 è ormai lontano, chi lavora in una grande città con incarichi importanti lo sa, la vita può fare un po’ schifo. Lo status sociale e i lauti guadagni non necessariamente ricompensano da un ambiente lavorativo competitivo e stressante che lascia solo dei ritagli di tempo di tempo per le proprie passioni, alla famiglia o agli amici.  La soluzione? Per molti è riappropriarsi del proprio tempo,  vivere più modestamente e rifiutare il modello del “più lavori, più guadagni, più t’indebiti”.

Ma se questa tendenza si è affermata nei decenni passati tra persone con incarichi manageriali,  ora caratterizza anche la classe media e i giovani precari. Il downshifting è diventato ormai un elemento generazionale: chi è nato negli anni ’80 sa che anche facendo grandi sacrifici e lavorando sodo difficilmente raggiungerà gli stessi risultati materiali dei propri genitori. In molti casi questa convinzione porta a un ridimensionamento delle proprie aspirazioni e a scelte dettate più dalla passione che dall’interesse. In Giappone, paese la cui economia è già da tempo in recessione, la generazione dei ventenni viene chiamata Satori, parola che nella filosofia buddista indica la libertà dai desideri materiali e la ricerca di verità essenziali. Non si tratterà di una nuova generazione di illuminati, ma è sicuramente una meno attratta da lussi, viaggi e auto costose, con mete e traguardi decisamente più modesti.

Ma come fare a liberarsi dalla gabbia di un lavoro che rende infelici? Simone Perotti ha scritto due libri sul tema: Adesso Basta – Lasciare il lavoro e cambiare vita e Avanti Tutta – Manifesto per una rivolta individuale , in cui racconta la sua esperienza di downshifter e raccoglie testimonianze e consigli di persone che sono riuscite a cambiare vita, guadagnando meno e ridimensionando le proprie necessità, ma riprendendosi indietro il proprio tempo. Per chi ci sta pensando sul serio, vale la pena leggerli.

La generazione dei nostri genitori aveva ben chiaro che lavorare la terra stanca e spesso dà poco in cambio. Per questo quando ha potuto, è stata felice di emanciparsi dall’agricoltura. Invece per le nuove generazioni che scappano da un mondo competitivo e individualista il ritorno alle campagne appare una romantica via d’uscita.

La crisi economica ha fatto capire a un sacco di persone che possono dire addio a un futuro fatto di comodità e benessere. Alla ricerca di strade alternative  per superare le incertezze del presente, per alcuni giovani lavorare la terra è diventato di colpo attraente, soprattutto tra chi che per titoli e percorsi di vita era destinato a fare tutt’altro. La generazione dei nostri genitori aveva ben chiaro che lavorare la terra stanca e spesso dà poco in cambio. Per questo quando ha potuto, è stata felice di emanciparsi dall’agricoltura. Ma per le nuove generazioni che scappano da un mondo competitivo il ritorno alle campagne può sembrare una romantica via d’uscita. Ma la realtà della vita dei campi potrebbe essere meno idilliaca di come si pensi. Ecco qui le storie di tre persone che hanno cambiato vita e si sono avvicinate all’agricoltura, in modi diversi tra loro.

Logan Strenchock

Logan Strenchock, statunitense. Si divide tra un lavoro all’università e un part-time in una fattoria biologica

Logan Strenchock è laureato in ingegneria civile, con una specializzazione nella costruzione di autostrade. Ha lavorato per il dipartimento dei trasporti pubblici della Pennsylvania, per poi licenziarsi. Dopo un master in Analisi strutturale dei monumenti e dell’edilizia storica tra Padova e Barcellona ha preso un altro titolo in scienze ambientali presso l’Università CEU di Budapest. Da allora vive nella capitale ungherese e coniuga in modo abbastanza inusuale lavoro intellettuale e fisico: per due giorni alla settimana è il responsabile dell’ufficio ambiente  dell’ateneo e si occupa di promuovere pratiche virtuose tra gli studenti. Altri due giorni alla settimana lavora nei campi di una fattoria biodinamica a una quarantina di minuti dalla capitale ungherese, mentre nel fine settimana si occupa di  vendere gli ortaggi prodotti in due mercati contadini.

“Negli USA c’è una grande pressione sociale che rende difficili scelte di questo tipo, anche per via dei prestiti universitari. Per un neo-laureato indebitato le scelte dettate più dal cuore che dal guadagno sono troppo rischiose e anche i più entusiasti devono confrontarsi con  la realtà e accettare il primo lavoro che capita”.

Perché hai deciso di cambiare vita? Pur studiando ingegneria e lavorando nel settore, sono sempre stato molto interessato al tema dell’alimentazione e a come l’agricoltura biologica può creare degli eco-sistemi sani. Vivere negli Usa ti porta a riflettere molto sul tema, vista la pessima qualità del cibo prodotto. Ho abbandonato il mio lavoro perché volevo realizzare qualcosa che mi facesse sentire più utile socialmente. Purtroppo negli USA c’è una grande pressione sociale che rende difficili scelte di questo tipo, anche per via dei prestiti universitari. Per un neo-laureato indebitato le scelte dettate più dal cuore che dal guadagno sono spesso troppo rischiose e anche i più entusiasti devono confrontarsi con  la realtà e accettare il primo lavoro che capita. Ad ogni modo ho la sensazione che sempre più giovani scelgano strade inusuali e si dimostrino più interessati all’impatto sociale del proprio lavoro piuttosto che a un tornaconto personale.

Cosa hai guadagnato e perso cambiando vita? Cambiando vita ho rinunciato a una maggiore sicurezza economica e a quelle che sono considerati i vantaggi di un posto sicuro, avere dei risparmi e via dicendo. Cose positive ma che da sole non bastavano ad assicurarmi una maggiore felicità. Ho finalmente trovato rapporti umani più genuini con le persone e il luogo in cui vivo. Il fatto di vivere tra persone con valori simili mi fa sentire parte di una comunità pronta a sostenermi e aiutarmi se avessi bisogno.

In passato il titolo di studio era un modo per emanciparsi dai lavori manuali e di scarso prestigio. Perché hai volontariamente deciso di tornare nei campi? Quando una persona è totalmente concentrata sulla sua carriera resta poco tempo da dedicare alla manualità e a garantirsi un certo grado di autosufficienza, attività che invece considero importanti. Se fossi dedito esclusivamente a un lavoro fisico o intellettuale mi mancherebbe qualcosa. Certo dividersi tra due occupazioni così diverse può essere anche frustrante, visto che fraziona il tuo tempo e le tue energie.

Visto il maggiore interesse verso l’agricoltura da parte dei giovani, cosa diresti a chi vuole avvicinarsi a quest’attività? Sicuramente c’è una maggiore attenzione riguardo il cibo che mangiamo e come viene prodotto. Ma c’è una bella differenza tra l’avere un pezzettino di terra e coltivare un orto e fare dell’agricoltura il proprio lavoro. Vivere della terra è un’attività rischiosa e non è adatta a tutti, anche perché richiede molte abilità: un bravo agricoltore deve anche essere abile nel marketing e nella vendita. Insomma, essere contadini è un’attività da prendere seriamente e senza ingenuità, c’è bisogno di molto lavoro e di molto studio. Se dovessi dare un consiglio a una persona interessata, suggerirei di provare prima a lavorare o aiutare in una fattoria per una stagione, in modo da capire quanto si è portati.

Qual è la differenza tra gli agricoltori di un tempo e quelli di oggi? Oggi i piccoli coltivatori vanno incontro a grandi difficoltà, a causa della pressione da parte dell’agroindustria e della grande distribuzione. Le reti di distribuzione locale sono state disintegrate e indebolite e c’è una grande penuria di mercati locali. I contadini oggigiorno devono imparare a essere più creativi e  resilienti, solo così riescono a sopravvivere.

Devis Bonanni, italiano. Ha lasciato un posto fisso per dedicarsi a tempo pieno all’agricoltura di sussistenza

Devis Bonanni è nato e cresciuto nelle Alpi carniche del Friuli. Dopo aver lavorato per un certo periodo come tecnico informatico, ha deciso di licenziarsi per dedicarsi a tempo pieno all’agricoltura. L’obiettivo non era trasformarla in una professione, ma garantirsi quanto più possibile l’autosufficienza alimentare. Quella di Bonanni è quasi una scelta politica, un progetto personale di decrescita e frugalità. Il libro Pecoranera in cui ha condiviso le sue riflessioni è stato un caso editoriale.

“Quando vedo certo orpelli sulle persone tiro un sospiro di sollievo, meno male che me ne sono tirato fuori. Riducendo i desideri vivere diventa più facile”.

Quali sono stati i principali vantaggi e svantaggi del tuo percorso di vita? Guadagnando meno, ho perso la possibilità di fare un acquisto senza pensarci su troppo. Ora che provo a consumare in modo responsabile le scelte davvero sostenbili sono poche, trovarle è una lotta quotidiana. Ma non lamento nessuna mancanza materiale, levare i consumi per me è stato liberatorio. Quando vedo certo orpelli sulle persone tiro un sospiro di sollievo, meno male che me ne sono tirato fuori. Riducendo i desideri vivere diventa più facile.

Licenziarsi è uno schiaffo in faccia a chi il lavoro non ce l’ha, te lo sarai sentito dire spesso. Tu hai avuto il coraggio di provarci, cosa diresti a un giovane che odia il suo lavoro ma che non trova il coraggio di lasciarlo?  La fuga è sempre negativa, non bisogna mai scegliere contro qualcosa, ma scegliere qualcosa. Chi ha aspirazioni bucoliche ha il dovere di mettersi alla prova. La rete WWOOF  dà la possibilità di visitare e lavorare in piccole realtà di produzione biologica in Italia e nel mondo. E’ un modo per vivere per pochi giorni l’alternativa cui si aspira.

Hai la sensazione che la crisi stia portando la nostra generazione a rivedere i valori e fare scelte più guidate dalla passione? Magari! La crisi è un’opportunità ma spesso si cercano strade diverse solo perché il sistema non paga più come una volta. Molti vedono l’agricoltura semplicemente come un altro mestiere”, ammantato di fascino arcadico, mentre essere contadini oggi è una scelta di vita. Come per l’Expo 2015 rischiamo una gran confusione, sotto la bandiera del cambiamento qui e ora, non rimane spazio per un’attenta riflessione ed elaborazione sulle tematiche della sostenibilità. Parafrasando H.D.Thoreau dobbiamo essere uomini nuovi per compiere nuove azioni.

In cosa ti senti diverso da un contadino della Carnia di cinquant’anni fa Cinquant’anni fa uno era contadino per nascita e contingenze. Io ho avuto l’opportunità di scegliere. E ogni giorno devo capire quale genere di contadino essere, che metodi utilizzare. Settant’anni fa tutto era biologico ante-litteram e l’innovazione in agricoltura così come nell’alimentazione era lentissima. Oggi il contadino ha invece un ruolo centrale nel costruire a velocità vertiginosa il presente e il futuro prossimo dell’assetto alimentare mondiale.

 

pedro rocha

Pedro Rocha, portoghese. Ha imparato a diventare agricoltore biologico

Pedro è portoghese, ha studiato scienze ambientali all’estero, ha vissuto in Germania e ha lavorato in progetti di sviluppo in America Latina e altri paesi lusofoni. Dieci anni fa ha avuto l’idea di realizzare in Portogallo un progetto di agricoltura biologica chiamato Raízes (Radici). Ma questo è solo l’inizio della sua storia.

Hai cambiato vita due volte: prima hai creato un’impresa di agricoltura biologica dal nulla, poi hai deciso di impegnarti all’interno di un nuovo progetto. Fino a una decina d’anni fa non avevo la minima idea che un giorno sarei diventato un agricoltore. Poi è venuto il desiderio di creare un progetto personale ed è nato Raízes, che per 5-6 anni mi ha impegnato totalmente. Ma quando i ritmi di lavoro hanno iniziato a diventare poco sostenibili e l’obiettivo dei miei soci si è concentrato sempre più su una crescita del fatturato fine a sé stessa, ho deciso di abbandonare.  In seguito ho conosciuto un gruppo di persone che stava creando a Porto una rete di scambi basati sull’uso di una moneta locale, l’ECOSOL. All’interno del gruppo, composto attualmente da più di 180 membri, si scambiavano già vari prodotti fatti in casa, biscotti, sapone, pane, yogurt, pasti vegan e altro, ma mancavano beni fondamentali come gli ortaggi. A quel punto si è pensato di creare una rete di orti urbani nei giardini dei membri. Abbiamo iniziato con terreni molto piccoli, in seguito ci è stato messo a disposizione uno spazio di un ettaro e nel frattempo continuiamo a ingrandirci. L’idea è creare delle ceste secondo il modello dei GAS, ma pagabili dai membri in ECOSOL, in modo da favorire la circolazione di beni e servizi tra i soci.

“Ci sono giorni in cui penso a ciò che ho lasciato, ma quando si battono nuove strade, non si può sperare di avere delle certezze”.

Dall’impegno in un progetto del genere come ricavi il tuo sostentamento? Vista la mia esperienza precedente, ho progettato e mi prendo cura insieme ad altri degli orti della rete ECOSOL. In questo modo riesco a garantirmi e a scambiare alcuni beni, ma ne esistono ancora tanti di uso quotidiano che non sono ancora offerti dalla nostra rete. In più ci sono le bollette, l’affitto e molto altro. Allargando l’offerta di beni e servizi scambiati attraverso ECOSOL il progetto diventerebbe ancora più efficace, pensa se ne facessero parte anche professionisti e artigiani. Un’altra idea è creare dei gruppi d’acquisto che comprino direttamente dai produttori in grandi quantitativi, abbattendo così i costi per i soci. Se il progetto continuerà a crescere, magari diventando una cooperativa, si potrebbe garantire alle persone più attive una sorta di salario minimo garantito. Oltre al mio impegno nel progetto ECOSOL realizzo anche corsi e laboratori legati all’agricoltura urbana, aiuto saltuariamente in un ristorante vegano in cambio di cibo e faccio altre piccole cose che, messe insieme, mi permettono di vivere semplicemente e felicemente.

Cosa hai guadagnato o perso uscendo parzialmente dal sistema? Ho guadagnato sicuramente la soddisfazione di fare ciò che mi piace. Non c’è un minuto della mia vita in cui mi senta annoiato o abbia dei dubbi sulle mie scelte. Cosa ho perso? Siamo tutti educati a seguire lo stesso modello: avere un ruolo attivo nel mondo del lavoro, una macchina, una famiglia e via dicendo. Se lo abbandoni è un po’ come tradire le aspettative della società e ci si può sentire tagliati fuori. Certo ci sono giorni in cui penso a ciò che ho lasciato, ma quando si battono nuove strade, non si può sperare di avere delle certezze.

Pubblicato originariamente sulla rivista FunnyVegan n. 14

Photo di Arseny Togulev su Unsplash

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