Pubblicato originariamente sul n. 21 del bimestrale Funny Vegan.
Quando entriamo in un supermercato, le cataste di frutti lucidi e uguali in tutto e per tutto l’uno all’altro mettono subito in chiaro cosa ci verrà offerto: un prodotto conveniente, abbondante e uniforme. Un po’ avvilente, se pensiamo che la Natura ha progettato la frutta con un’altra funzione, quella di sedurci con uno straordinario repertorio di profumi, colori e sapori. Sì, perché la frutta, al suo livello più elementare, non è altro che una parte dell’apparato riproduttivo di un fiore e serve a facilitare la dispersione dei semi della pianta. Gli animali e i nostri antenati cadevano volentieri nella trappola e, cogliendo e mangiando quel cibo così profumato e dalle forme accattivanti, ne diventavano inconsapevoli seminatori. Infatti i semi contenuti nel frutto, dopo essere passati per il tubo digerente, venivano gentilmente depositati altrove, pronti per germogliare e portare avanti quest’astuta strategia riproduttiva, da cui tutti avevano qualcosa da guadagnare.
Con il tempo l’essere umano ha trovato prima la chiave per coltivare gli alberi da frutto selvatici, senza che ci fosse più bisogno di scovarli in natura, e dopo quella per avviare un processo di selezione che rendesse i frutti più saporiti e adatti alle sue esigenze. Ciò non significa che la frutta fosse diventata accessibile a tutti, inoltre frutti esotici come banane e kiwi erano ovviamente lussi destinati a re e regine. Altri tempi, visto che la frutta oggigiorno è abbondante come mai prima nella storia. Ciò ha indubbiamente molti risvolti positivi, ma ha anche richiesto un sacrificio non da poco: trasformandola in una merce abbondante e poco costosa, qualunque sia la stagione, è stato necessario sacrificarne la varietà e la qualità. Prendiamo la banana: il 99% di quelle prodotte per l’esportazione è della qualità Cavendish, scelta più per la sua resistenza ai parassiti che per il sapore.
Nell’ultimo secolo anche nel nostro paese la diversità frutticola è diminuita drasticamente. In una pubblicazione dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale si legge che in Italia vengono attualmente coltivate non più del 10% delle varietà presenti sul territorio, molte delle quali, attestate fin dai tempi antichi, sono destinate a sparire a causa dell’industrializzazione agroalimentare, del consumo del suolo agricolo e del nostro disinteresse. In uno scenario così desolante, il progetto Archeologia Arborea di Isabella Dalla Ragione ci dà la speranza che si possa ancora fare qualcosa. “Negli anni Cinquanta e Sessanta mio papà si rese conto della smemoratezza delle persone verso il proprio patrimonio botanico e culturale, ben prima che parlare di biodiversità diventasse di moda” racconta Isabella. In quegli anni suo papà Livio iniziò a raccogliere, prima da solo, poi insieme a lei, varietà di frutta che andavano perdute nell’Umbria nativa, con l’idea di salvaguardarle nella tenuta familiare. Livio e Isabella sono andati per anni alla ricerca di qualità in via d’estinzione, visitando poderi abbandonati, contadini, conventi e monasteri, luoghi di chiusura per eccellenza e pertanto in grado di conservare esemplari altrove perduti. Per rintracciare specie pressoché scomparse sono ricorsi anche a ricerche bibliografiche su testi letterari o botanici antichi, o addirittura ad attente analisi sui quadri rinascimentali in cui venivano rappresentati gli antichi frutti. Il risultato di questo lavoro è ora ben visibile a Città di Castello, in provincia di Perugia, dove sono presenti circa 400 esemplari di diverse specie tra melo, pero, ciliegio, susino, fico, mandorlo, nespolo e melo cotogno, in 150 varietà differenti ritrovate nelle zone della ricerca. Spesso con nomi curiosi e inusuali: chi ha mai sentito parlare della pera volpina, del fico permaloso o della susina scosciamonaca? Il frutteto è aperto a visite, ma guai a vedere questa tenuta come un’arca di Noè della frutta dimenticata dell’Oltretevere o un museo: “Abbiamo salvato dall’oblio tante varietà che in un passato non troppo lontano rappresentavano il nostro paesaggio e la nostra alimentazione. Queste piante erano legate fortemente alla vita quotidiana di generazioni di agricoltori e per questo andrebbero considerate parte del patrimonio culturale di queste zone. Certo quel mondo non esiste più, ma il frutteto di Archeologia Arborea è una realtà vivente, essendo costituito da piante che crescono, si ammalano, muoiono e vengono sostituite”. Salvare queste varietà è un po’ come riportare alla luce un’opera d’arte perduta, ma se le si chiede se c’è un ritrovamento di cui è particolarmente orgogliosa, Isabella ha difficoltà a rispondere: “È come chiedere a una madre qual è il figlio preferito. Ogni varietà presente nel frutteto ha una storia lunga secoli, o magari curiosa perché legata a qualche vicenda particolare. Ad esempio trovavo spesso citata nei documenti d’archivio del Cinquecento e del Seicento la pera fiorentina, ma pensavo fosse scomparsa. L’ho ritrovata dopo tanti anni abbastanza casualmente ed è stato come riscoprire uno straordinario tesoro”. Per proseguire il lavoro di ricerca e mantenimento della biodiversità, Isabella Dalla Ragione ha creato una fondazione con l’obiettivo di valorizzare e far conoscere al mondo questo straordinario progetto. Chiunque decida di visitare la tenuta, adottarne un albero o piantare nel proprio giardino una delle loro piante darà di certo un contributo significativo.
Ora che iniziamo a essere consapevoli che la frutta è un alimento capace di sapori esplosivi, presente in migliaia di varietà, riusciremo ancora a entrare in un supermercato e consumarne una versione commerciale dal sapore blando, magari impacchettata nella plastica? A questo punto la cosa più importante che possiamo fare è diventare consumatori di frutta vera, rifornendoci da quei produttori e coltivatori che offrono qualità locali e privilegiano la biodiversità. Ma anche iniziare a vedere le nostre città e le nostre campagne con occhi diversi, perché è ancora possibile trovare a due passi da casa nostra alberi abbandonati a se stessi, che producono ogni anno centinaia di chili di frutta. A Los Angeles, proprio per ovviare a questo spreco, è nata Food Forward, un’organizzazione non profit che grazie a dei volontari raccoglie da un centinaio di proprietà private e spazi pubblici frutta altrimenti incolta, la quale va a rifornire mense popolari, progetti sociali e i banchi dei mercati rionali. Sul sito di Food Forward è presente un contatore della frutta recuperata dalla nascita del progetto, che rileva una quantità di oltre 8000 tonnellate. Food Forward realizza anche delle mappe che permettono di localizzare gli spazi pubblici in cui trovare frutta gratis, così che chiunque possa fare lo stesso per conto proprio. Molti di quegli alberi hanno decine di anni alle spalle e indisturbati si sono adattati alle condizioni del terreno e del clima, sviluppando frutti dal sapore unico.
Qualcosa del genere inizia a nascere anche in Italia con Frutta Urbana, progetto nato a Roma che si pone gli stessi obiettivi di Food Forward. Nella loro pagina web è presente una mappa interattiva a cui tutti gli utenti possono contribuire con le loro segnalazioni. Il progetto, oltre a redistribuire la frutta a mense sociali e banchi alimentari, rifornisce anche alcuni GAS. Vengono inoltre organizzati laboratori nelle scuole sullo spreco, così come corsi per imparare a realizzare le conserve o piantare e curare frutteti. E se nelle nostre città iniziassimo a vedere gli alberi da frutto non come un arredo urbano, ma come fonti di cibo gratis a disposizione di tutti?
A Seattle è nato nel 2009 il progetto Beacon Food Forest, una foresta commestibile di quasi tre ettari che sorge su suolo pubblico, con alberi da frutto e altre specie vegetali commestibili a disposizione della comunità. Un’idea tanto semplice quanto innovativa che speriamo venga presto messa in pratica da cittadini entusiasti e amministratori illuminati.