Pubblicato sul n. 24 della rivista FunnyVegan
Ogni volta che apro il mio cassetto delle spezie mi chiedo, a volte con una punta d’imbarazzo, se sarò mai in grado di usarle tutte. Solitamente va così: leggo di una ricetta appetitosa che ha bisogno di qualche spezia inusuale, ne vado alla ricerca, a volte non senza difficoltà, e dopo aver preparato il piatto la ripongo in dispensa, consapevole che magari la riutilizzerò per la seconda volta tra un paio d’anni. Potrei non essere il solo ad avere la casa invasa di polveri profumate e aromi: secondo un’indagine realizzata dal marchio produttore di elettrodomestici Kenwood nel solo Regno Unito giacciono inutilizzate nei cassetti spezie per un valore pari a 270 milioni di euro. Alcuni lo chiamano l’effetto Ottolenghi, dal nome dello chef britannico-israeliano che ha popolarizzato la cucina mediorientale e ha contribuito a riempire le nostre cucine di sapori decisamente poco versatili come za’atar e sommacco.
L’uso delle spezie in Italia è soprattutto legato a incursioni in tradizioni culinarie straniere, visto che nel patrimonio gastronomico nostrano è tutt’altro che centrale. Eppure non è sempre stato così. Nella cucina medievale e rinascimentale italiana le tavole erano condite con una tale gamma di aromi che al nostro palato contemporaneo molte pietanze dell’epoca risulterebbero probabilmente immangiabili. A dir la verità l’uso delle spezie era attestato già in epoca tardo-romana, ma fu solo con le Crociate che iniziarono a essere commerciate in modo esteso, soprattutto dalle Repubbliche Marinare del tempo. Anche per questo motivo la ricaduta sulla cucina locale fu grande. Il manuale della mercatura di Firenze tra il 1315 e il 1340 fornisce la lista dei prodotti trattati: vari tipi di pepe e zenzero, chiodi, fusti e foglie di garofano, cardamomo, galinga, anice, curcuma, cassia, zettoara e cubebe, solo per citarne alcune. Per spiegare il successo delle spezie è necessario chiamare in causa la dietetica del tempo, che attribuiva a questi prodotti un ruolo positivo nella digestione. La scienza medievale riteneva infatti che il “calore” delle spezie, aiutando il lavoro di cottura dei cibi nello stomaco, ne favorisse una più rapida ed efficace assimilazione. Ma non mancavano motivi sociali: a causa del loro costo proibitivo, le spezie rappresentavano un elemento di grande prestigio per le classi alte della società ed erano un vero status symbol della gastronomia ricca.
Malgrado siano queste le vere ragioni del successo delle spezie nel passato, è ancora straordinariamente diffusa un’interpretazione totalmente erronea: “Il mito che le spezie servissero per coprire il sapore di cibi andati a male è dura a morire, forse perché legata alla nostra idea del Medioevo come epoca buia e di ristrettezze economiche. Di solito non si considera il fatto che fossero beni di lusso e che dunque chi poteva permettersele non avesse alcuna difficoltà ad approvvigionarsi di carne fresca, non solo commestibile, ma anche eccellente” spiega Antonella Campanini, docente di Storia della cucina e di Storia delle culture alimentari dell’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo.
A partire dalla fine del XVI secolo le spezie cominciarono però gradualmente a diminuire di prezzo, perdendo così la caratteristica di status symbol. Il loro uso iniziò a essere abbandonato, ma questo declino va imputato anche alla crescente importanza culturale della corte di Versailles e al sopravvento della nuova cucina francese. “Nel Medioevo e nel Rinascimento l’opera del cuoco consisteva nel realizzare un insieme armonioso nel quale i singoli ingredienti praticamente non si riconoscevano neppure. Le spezie favorivano quella cucina di sintesi. Ma la tradizione francese apre una nuova fase definita di ‘cucina analitica’, dove ciascun ingrediente e il suo sapore devono essere valorizzati all’interno del piatto” racconta Campanini. Con questa rivoluzione del gusto in corso, per le spezie non c’è più molto spazio. A quel punto, senza più una moda che ne giustifichi l’utilizzo, la maggior parte delle spezie sparirà completamente dalle tavole italiane e tornerà solo nei secoli successivi attraverso ricette e preparazioni straniere. Alcune però, per esempio il peperoncino, entreranno con prepotenza nell’uso quotidiano grazie alla grande disponibilità e ai bassi costi di produzione.
La fortuna e il declino delle spezie nella cucina italiana ci obbliga a interpretare il nostro patrimonio gastronomico in modo inedito. Dai più immaginato come qualcosa di immutabile e sempre uguale, è invece un campo culturale che si evolve e cambia a seconda delle mode, dei valori e del sapere scientifico dell’epoca. Una cosa che di certo dovrebbero tenere a mente tutti coloro che criticano l’alimentazione vegetariana o vegana perché sovverte una tradizione culinaria che è invece, per sua natura, mutevole e aperta alle contaminazioni.
Box: Se esiste una spezia che divide i palati, questa è il coriandolo. Alla vista simile al prezzemolo, il coriandolo è comune nella cucina tailandese e messicana e il suo profumo e sapore per molti è insopportabilmente metallico e saponoso. Non a caso esistono addirittura comunità online di odiatori di questa spezia. Alcuni studi recenti sembrano dimostrare però che l’intolleranza verso l’odore del coriandolo abbia origini genetiche e sia addirittura ereditaria. Ma per chi vuole guarire esiste una cura: farne un pesto sembra rendere più sopportabile o addirittura piacevole l’aroma anche ai coriandolo-fobici.