Copertina del libro "Che mondo sarebbe" di Cinzia Scaffidi
Copertina del libro "Che mondo sarebbe" di Cinzia Scaffidi

Come gli snack possono raccontarci la società che cambia

Pubblicato sul n. 34 della rivista FunnyVegan

Un famoso spot pubblicitario con cui è cresciuta la mia generazione racconta di un inevitabile momento a cavallo tra i pasti in cui non ci si vede più dalla fame. Quel momento, noto fin dal medioevo col nome di merenda, era un attimo di riposo e ristoro tra pranzo e cena, che andava però guadagnato col lavoro. Non a caso la parola merenda deriva dal latino meritare.

Le cose sembrano un po’ cambiate da allora: tanto la merenda d’un tempo era un momento quasi rituale, quanto lo snack odierno, per la sua convenienza e facile reperibilità, per certi versi la banalizza: basta sentire un languorino e la mano raggiunge subito qualcosa con cui calmarlo. Tanto meglio se senza interrompere il tempo produttivo e restando seduti davanti al computer.

Più di tutti, lo snack preconfezionato diventato un fenomeno di massa a partire dagli anni Cinquanta negli Stati Uniti è il pasto rappresentativo dei tempi moderni. Al punto da sostituire spesso il pranzo stesso, visto che sfamarsi può anche diventare una seccatura che ci distoglie da attività ritenute più urgenti. “Per certi versi consumare uno spuntino, nella nostra società occidentale, può anche diventare un’attività che non ha niente a che vedere con l’appetito, la sua funzione può anche essere semplicemente coprire un vuoto di tempo in cui non si sa che altro da fare, un po’ come accendere una sigaretta”, fa notare Cinzia Scaffidi, vicepresidente di Slow Food Italia e docente dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. “Tuttavia non bisogna incorrere nell’errore di giudicare gli snack odierni come cibi sterili e privi di una funzione sociale: quando dei giovani condividono un tubo di Pringles c’è una forte dimensione comunitaria, che non va affatto sottovalutata. È innegabile però che rispetto al passato l’alimento condiviso è più povero, valutato più per la marca, il brand”.

Se in passato lo snack era un prodotto artigianale e diversificato regionalmente, a partire dagli anni Sessanta sono diventate di casa anche in Italia delle versioni industriali dello spuntino che col tempo sono diventate iconiche, dal Buondì alla Fiesta. Poco o tanto, questi prodotti li abbiamo mangiati tutti, e per questo anche chi segue una dieta priva di prodotti preconfezionati sentirà emozioni contrastanti davanti a un Tegolino: “ci affezioniamo alle cose che accompagnano determinate fasi della nostra vita, che magari ci ricordano la nostra giovinezza ed entrano pertanto nella nostra storia. In passato un primo amore poteva venire associato al cogliere insieme ciliegie dall’albero, condividere una cotoletta alla milanese o a una focaccia di un panettiere, per le generazioni successive a una Crostatina o a un Cornetto Algida”, fa notare Scaffidi. In altre parole il nostro giudizio su questi prodotti è sempre un po’ generazionale: sarà che per un millennial tra trent’anni la madeleine proustiana avrà la forma di un Kinder Pingui?

 

Copertina del libro "Che mondo sarebbe" di Cinzia Scaffidi
Copertina del libro “Che mondo sarebbe” di Cinzia Scaffidi

 

È innegabile però che rispetto agli anni Ottanta e Novanta, dopo tanti scandali alimentari, ci sia stata una brusca inversione di tendenza e la consapevolezza dei consumatori su cosa significa mangiare sano sia aumentata esponenzialmente, di pari passo con la domanda per snack più ecologici e salutisti.  Di certo i social media hanno giocato un ruolo importante, grazie a essi le aziende possono tastare il polso del mercato in tempo reale e comportarsi di conseguenza, magari anche aggiustando in corsa le ricette. Gli esempi più evidenti sono la rapida veganizzazione negli ultimi anni di molte merendine, o un caso ancora più famoso, la sostituzione dell’olio di palma dagli ingredienti di tanti snack.  Un chiaro segnale di come i consumatori abbiano ancora il potere di orientare le scelte delle aziende.

Tanti detrattori degli snack industriali, pur mettendone in discussione la qualità nutritive, concedono loro però un merito: quello di aver contribuito a emancipare le donne, o perlomeno ad aver reso la vita un po’ più facile a quelle che entravano a far parte della forza lavorativa. Ma è davvero così? Cinzia Scaffidi è convinta che questo mito sia frutto della pervasiva narrazione delle marche produttrici: “preparare una torta costa molto meno rispetto all’acquisto di un pacco di merendine, solo che per farlo ci vogliono due cose, competenza e tempo. L’industria alimentare, attraverso la pubblicità, prova a convincerci che è in grado di offrire prodotti in tutto simili a quelli artigianali e che ci fanno risparmiare del tempo, ma per risparmiarlo bisogna lavorare e guadagnare dei soldi, quindi il tempo lo abbiamo già utilizzato. Dove sarebbe quindi il risparmio?” Insomma, malgrado il furbo e rassicurante storytelling delle industrie alimentari, sotto molti aspetti in questa transizione sociale è più ciò che si perde che ciò che si guadagna. Scaffidi fa inoltre notare che “in questa narrazione sessista è sempre la donna l’incaricata della preparazione della merenda, è soltanto lei quella sollevata dall’onere della preparazione dello snack casalingo. Cosa che in una coppia moderna dovrebbe ormai apparire inaccettabile”.

Sarà che l’ora dello snack, il pasto della giornata a cui diamo spesso meno importanza, è sorprendentemente quello che può dirci di più su com’è cambiata, e cambia, la nostra società?

L’ultimo libro di Cinzia Scaffidi s’intitola “Che mondo sarebbe” (Slow food EDITORE, 2018).Uno sguardo ironico su come sarebbe il mondo se assomigliasse davvero a quello che la pubblicità del cibo ci descrive.