Si sbaglia chi pensa che delle avvincenti storie di mare possano arrivare solo da un anziano marinaio con la pipa in bocca

Pubblicato sul numero #2 della rivista NuuN

Raffaella Tolicetti può fare infatti molto di meglio: le sue sono storie avvincenti e rigeneranti di giovani attivisti pronti a tutto per proteggere i mari. Raffaella è stata in servizio per più di sette anni sulle navi di Sea Shepherd, organizzazione ecologista internazionale che con la sua flotta di imbarcazioni prova a difendere la fauna marina e a ostacolare baleniere e bracconieri. Raffaella ci racconta in quest’intervista delle sue esperienze sulle navi di Sea Shepherd da una prospettiva inusuale: la cambusa. Sì, perché Raffella per sei anni ha prestato servizio come capocuoca su varie navi dell’organizzazione.

Va ricordato che la cucina sulle navi di Sea Shepherd è rigorosamente vegana, e Raffaella ha anche condiviso la sua esperienza a bordo nel libro di ricette attiviste “Think! Eat! Act!”, tradotto successivamente in italiano col titolo “Pensa! Mangia! Agisci!” (Edizioni Sonda). Se Raffaella è riuscita a realizzare piatti appetitosi mentre delle baleniere otto volte più grandi speronavano la sua imbarcazione, pensate a cosa otterrete nella calma delle vostre cucine.

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Com’è iniziato tutto?

Nel 2010 una delle navi di Sea Shepherd era nel Mediterraneo per una campagna contro la pesca illegale. Sono andata a vederla in porto e ad aiutare a bordo. Dopo tre giorni sul ponte, mi hanno chiesto se potevo andare in cucina, perché la persona che si occupava della cambusa stava male. Non ero una cuoca, né tantomeno avrei mai pensato di diventarlo. Però ero disposta ad aiutare in qualsiasi modo, e quindi ho accettato. Da lì siamo partiti in Australia, poi in Antartide, e così per sette anni ho cucinato a bordo di tre imbarcazioni diverse in giro per il mondo. Anche se non ero in prima linea a partecipare alle azioni, ho comunque dato il mio contributo alla causa.

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Come bisogna immaginare la quotidianità nella cambusa?

Cucinare in mare è molto particolare: le nostre navi sono poco più lunghe di 60 metri, quindi si muovono molto, inoltre si parte per mesi senza essere mai sicuri di quando e dove si tornerà in porto. lo scopo è fermare le azioni illegali in mare e quindi andiamo dove ci portano i pescatori di frodo. In Antartide non solo bisogna fare i conti con un mare scatenato, con il freddo e il ghiaccio, ma anche con la flotta baleniera giapponese, che caccia le balene in un santuario remotissimo e che ha dimostrato di essere disposta a tutto per continuare a farlo, anche speronarci e affondarci.

In cucina bisogna essere pronti a spegnere tutto, magari correre ad aiutare a causa dell’acqua che entra da una falla e poi riprendere a preparare qualcosa che si può mangiare facilmente come panini e biscotti, visto che quando siamo in azione, pur se affamato e infreddolito, l’equipaggio non ha di certo tempo per sedersi a tavola. Certe giornate sono davvero infinite, ma è in quei momenti che ti rendi conto che una nave è una macchina ben oliata, ognuno ha il suo ruolo ma è pronto all’occorrenza ad aiutare dove serve.

 In mare non è esattamente facile andare a comprare un pacco di zucchero. Come viene organizzata la dispensa?

Prima di partire per le campagne la dispensa si riempie al massimo della capacità, con l’idea che si potrebbe rimanere in mare anche nove mesi. Tre anni fa siamo partiti per la campagna “Operation Icefish”, pensavamo sarebbe durata un mese e invece è andata avanti per cinque.

In cucina bisogna avere la sicurezza di non esaurire ingredienti indispensabili come riso, pasta, cereali, legumi, olio e farina. Per quante insalate possa comprare, finiranno comunque per andare a male. Per ovviare al problema facciamo tanti germogli, sperimentiamo i sistemi idroponici per far crescere un po’ di erbe e foglie, surgeliamo e essicchiamo prima di partire. Tuttavia le nostre navi sono lì per difendere il mare e l’equipaggio a bordo è consapevole che ci sono sacrifici da fare, come non mangiare cose fresche, o poche, dal secondo mese in poi.

 

 

 

Sea Shepherd ostacola le imbarcazioni che commettono atti di bracconaggio marino in modo determinato e combattivo.  Molte persone però, abituate a forme di attivismo più “soft”, si sentono a disagio con il ricorso all’azione diretta. Puoi spiegare le ragioni del vostro approccio?

Ci sono molteplici metodi di intervento contro le azioni di bracconaggio e di distruzione del pianeta, e l’azione diretta è uno tra i tanti. Credo che di fronte allo scempio che abbiamo davanti agli occhi, non abbiamo il lusso di scartare nessuna opzione, purché non violenta. La divulgazione e l’educazione sono importanti, ma se nessuno si oppone fisicamente alla pesca illegale, saremo la prima generazione testimone del collasso del nostro complesso ecosistema, su cui si basa anche la nostra esistenza. Mentre discutiamo su quali siano le tattiche migliori si sta estinguendo la vaquita marina in Messico, si è già estinta una specie di delfino in Cina, e la lista delle specie in pericolo potrebbe andare avanti a lungo. Non si torna indietro dall’estinzione, per questo è importante non essere spettatori passivi e agire prima che sia troppo tardi.

Qual è stato il momento più difficile che hai vissuto a bordo?

È stato probabilmente nel 2013, durante la campagna “Zero Tolerance” in Antartide. L’imbarcazione su cui mi trovavo, la Sam Simon, era stata appena speronata da una baleniera otto volte più grande. Nel frattempo un’altra nostra nave, la Bob Barker, si trovava stretta tra la baleniera Nisshin Maru e una nave di rifornimento carburante giapponese. Presa a “sandwich” e speronata violentemente, fu costretta a emettere un SOS. Eravamo a un chilometro di distanza, potevamo vedere e soprattutto sentire tutto via radio. In quei drammatici momenti temevamo davvero che la Bob Barker sarebbe affondata e qualcuno dei nostri compagni sarebbe morto. Quando ci si imbarca si sa che si mette la propria vita in prima linea per la difesa della fauna marina, ma solo quando ti trovi in una situazione come quella capisci davvero che può capitare. Chi pratica il bracconaggio marino non si ferma davanti a nulla, neanche alla vita umana. Questa storia ha comunque un lieto fine: la Bob Barker è una nave molto tenace e alla fine siamo tutti fortunatamente tornati in porto sani e salvi.

È arrivato un momento in cui hai deciso di tornare a terra. Come mai?

Dopo anni in giro per il mondo mi è sembrato naturale tornare in Italia, cercare di agire a livello locale, vedere in che modo potevo essere connessa di nuovo con un territorio bellissimo, ricco di natura ma sottoposto a una pressione antropocentrica fortissima. Mi sono trasferita nelle Alpi, in mezzo a una valle piena di alberi e torrenti, e questo contatto con la natura mi permette di portare avanti gli ideali e i sogni maturati sulla nave: coltivare un orto, fare permacultura, vivere in modo sobrio e circondata dalla natura.

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Gli attivisti vengono spesso immaginati come te, giovani idealisti che si lasciano alle spalle una vita comoda. Al confronto, stare a casa e fare la raccolta differenziata appare ben poco affascinante.

Lo scopo dell’attivismo non è diventare eroi ma cambiare radicalmente le nostre abitudini e agire tutti i giorni. Come consumatori in un paese occidentale possiamo giocare un ruolo enorme: consumare meno, e meglio; smettere di mangiare alimenti che derivano dallo sfruttamento animale e umano; essere attivi sul proprio territorio e spingere per la messa al bando dei pesticidi; lottare per più piste ciclabili e per la tutela delle aree verdi, le battaglie davvero non mancano.

Bisogna desacralizzare l’attivismo, perché nel 2018 abbiamo bisogno che tutti nel loro piccolo diventino attivisti ambientali, altrimenti potremo dire addio al pianeta come lo conosciamo adesso, e dovremo prepararci a sempre più crisi e conflitti legati al controllo dell’acqua e del cibo, e di conseguenza sempre più rifugiati climatici. Anche qui in Italia.

È facile per te fare attivismo, preoccuparti di problemi che toccano il pianeta e le prossime generazioni, senza sentire il peso del mondo sulle tue spalle?

Sarò sincera: non c’è giorno che non mi senta travolta da questo vortice costante di notizie negative, e a volte mi sento disperata. Ma poi mi ricordo che sono anche molto fortunata. Penso a persone come Berta Cáceres, una famosa attivista indigena che si è battuta tutta la vita contro una diga in Honduras e che è stata uccisa selvaggiamente a casa sua, o a tutte le donne e gli uomini che hanno pagato con la vita il proprio impegno per un mondo più giusto. Per tanti versi sono privilegiata, gli attivisti ambientali in Occidente non corrono gli stessi rischi,  perciò credo sia doveroso usare questa libertà per portare avanti le stesse battaglie.

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