Pubblicato su FunnyVegan n. 35.
Ilaria Campanari, in modo inusuale, nel 2014 si è laureata in Lettere e Filosofia presso La Sapienza di Roma, Dipartimento di Storia contemporanea, con una tesi sugli allevamenti
intensivi. Ora la sua ricerca, ben documentata e precisa, è diventato un libro, uscito a novembre con la casa editrice Enea. Occasione perfetta per parlare di passato, futuro
e alternative all’allevamento industriale.
Come si è arrivati al momento storico in cui l’animale, allevato in modo utilitaristico ma nel rispetto delle sue necessità fisiologiche, è diventato un semplice prodotto?
Alla base di un simile cambiamento c’è il processo di trasformazione di un essere vivente in una cosa, lo stesso processo per cui al momento della vendita si cerca di presentare il prodotto animale il più lontano possibile dalla sua forma originaria. Determinate consuetudini hanno creato col tempo delle vere e proprie dissociazioni mentali: basti pensare a una comune gita scolastica in fattoria, dove gli animali vengono presentati in termini affettuosi a bambini che spesso non sono nemmeno pienamente consapevoli di alimentarsi degli stessi.
L’industria dell’allevamento intensivo è stata una delle prime forme di produzione industriale del XX secolo, al punto da ispirare Henry Ford.
A differenza di quanto si tramanda, il moderno sistema produttivo della catena di montaggio non nasce nell’industria automobilistica, bensì nei mattatoi di Chicago, dai cui carrelli sopraelevati Henry Ford trasse ispirazione e riguardo ai quali Jeremy Rifkin ha coniato l’espressione “catena di smontaggio”. Il processo creativo
di assemblare un’auto è stato ispirato dal suo completo opposto: la distruzione e il letterale smembramento dell’animale, al fine di ottimizzare tempo e risultati. Per certi versi non si tratta di crudeltà, solo di una fredda ottica costi/benefici.
Ma un sistema economico che prova a ridurre i costi e massimizzare i profitti alla lunga si ritorce poi contro l’uomo stesso. Arriviamo al punto di cibare erbivori con i propri simili, per ritrovarci poi con la BSE, o morbo della mucca pazza.
Ciò dimostra come forzare le leggi di natura in maniera così drastica non possa che presentare il suo conto da pagare. L’idea che un animale erbivoro possa esser nutrito come carnivoro va oltre qualsiasi considerazione della natura e delle sue leggi, eppure è stata un’idea giudicata più che valida da parte degli allevatori di età moderna, almeno fino a quando non è divenuto per loro necessario affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
Dalla tua ricerca emerge che l’allevamento intensivo andrebbe visto come un’attività industriale tra le più inquinanti e dannose, da regolare immediatamente.
Punto di origine di tutti i problemi è stato l’abbandono dell’antico modello produttivo dove animali allevati e campi coltivati erano un tutt’uno. I rifiuti dei primi concimavano infatti i secondi e i secondi nutrivano a loro volta i primi in un circolo virtuoso. Il concetto di rifiuto non esisteva, poiché il numero dei capi era proporzionato rispetto all’estensione dei terreni coltivati. Tale equilibrio è venuto meno quando si
è passati a pratiche di tipo intensivo, portando al problema dell’esaurimento del suolo, sempre più impoverito dai fertilizzanti chimici sostituiti alle deiezioni animali, e alla necessità di smaltire i rifiuti prodotti da bovini, ovini e altri ancora. Tra erosione del terreno, disboscamenti e inquinamento, ciò che dovrebbe darci vita e benessere,
nutrendoci, ci sta invece lentamente distruggendo.
Una buona parte del tuo libro è destinata alle alternative. Si può tornare indietro?
Non si tratta di potere, quanto di dovere tornare indietro. L’attuale sistema agroalimentare non è più sostenibile. È pertanto necessario optare per tecniche dal minore impatto ambientale, come l’allevamento estensivo e l’agricoltura biologica, e, fattore di primaria importanza, diminuire significativamente il consumo di carne e derivati animali. Passi avanti sono stati fatti, anche a livello legislativo, a cominciare dal Piano di azione dell’UE 2006-2010, le cui direttive regolano le condizioni e il benessere dei capi allevati. Ma le lacune da colmare sono ancora numerose, a partire dalla messa in atto a livello locale dei provvedimenti emanati dall’autorità europea.
Quante delle alternative oggi tanto di moda, si pensi alla biodinamica, hanno superato il vaglio della scienza?
L’agricoltura biodinamica si fonda sul principio che la realtà vada considerata come un unico insieme di forze visibili e non. Rudolf Steiner, suo fondatore, riteneva infatti che la realtà umana andasse indagata anche oltre la sfera materiale, in nome di una visione olistica, secondo cui le forze astrali esercitano un’influenza di primaria importanza sui fenomeni biologici. La biodinamica viene oggi considerata come una pseudoscienza più che come una disciplina scientifica ufficialmente riconosciuta. È tuttavia innegabile che la biodinamica ponga sotto la giusta luce il peso e l’importanza dei problemi presentati dall’agricoltura di tipo intensivo, che al giorno d’oggi non possiamo più permetterci di ignorare.

Brevi:
Un nuovo studio pubblicato dal Journal of Cleaner Production ha analizzato l’impatto ambientale di un allevamento intensivo spagnolo in cui vengono prodotte più di tredici milioni di uova all’anno. Le conseguenze più evidenti sono state un aumento della tossicità del suolo e delle risorse idriche locali.
Secondo una ricerca di mercato della compagnia Mintel la metà degli europei sta attivamente diminuendo il consumo di carne; almeno il 45% degli italiani e francesi si impegna regolarmente e consapevolmente ad avere dei giorni senza carne.
La compagnia di burger vegan Beyond Meat ha contribuito a cambiare il modo in cui questi prodotti vengono percepiti dai consumatori. La decisione di vendere i suoi prodotti nel banco della carne è stata spesso criticata, ma inizia a essere seguita da sempre più aziende. Secondo una ricerca di mercato di NPD Group, l’86% dei consumatori di prodotti vegan è onnivoro.