Bryant Terry

Black and white vegan

Pubblicato sulla rivista FunnyVegan n. 33

Chi tende a immaginare la dieta vegan come un’idea nata in Occidente dovrebbe ricredersi.

Che la compassione verso gli animali sia da millenni presente in molte culture asiatiche è cosa nota. Meno noto invece è che, ben prima che Donald Watson coniasse la parola vegan, già alla fine del XIX secolo la comunità statunitense degli israeliti neri avesse tra i suoi precetti quello di una dieta completamente priva di prodotti animali, mentre negli anni Trenta all’interno del movimento Rastafari era popolare la dieta Ital, che potremmo definire una dieta proto-vegan.
Tuttavia, se entriamo in un motore di ricerca immagini in Rete e digitiamo la parola “vegani”, ci apparirà una serie di foto che mostrano cibi deliziosi e persone dalla faccia sorridente e salutare. Apparentemente un’immagine positiva e invitante. Ma negli Stati Uniti, paese in cui il razzismo è una ferita ancora aperta, non passa di certo inosservato che quelle facce sono per la maggior parte bianche. Ecco perché molti vegani
di colore stanno portando avanti una battaglia per una rappresentazione più sfaccettata dell’universo cruelty free e si dichiarano orgogliosamente “black vegan”.
Non manca chi accusa il movimento black vegan di autoghettizzarsi: perché considerarsi diversi dagli altri vegani? Se vogliamo immaginare un mondo migliore, non dovremmo
smettere di dare importanza a origini e colore della pelle? Secondo questa corrente solo chi appartiene alle classi privilegiate, chi ha la pelle del colore “giusto” ed è di fatto al riparo dalle discriminazioni può fare un’affermazione del genere. Possiamo romanticamente far finta che siamo tutti uguali, ma all’interno della società americana – come purtroppo anche in altri paesi – neri e latini continuano a essere penalizzati.

I black vegan denunciano che anche all’interno dello stesso movimento vegan sono ben presenti delle discriminazioni: se la cucina vegetale è spesso descritta come un paradiso interculturale, perché gli chef e i maggiori autori di ricettari plant based sono bianchi, così come la maggior parte dei testimonial? Pur se ricca e viva, la comunità vegan nera statunitense appare spesso invisibile e si sente pertanto ignorata dal mondo vegano mainstream. Ma la nascita di una sorta di orgoglio vegan nero è riuscita negli ultimi anni a modificare l’immagine che negli USA si ha del veganismo. Nel 2015 l’attivista Aph Ko ha compilato una lista di cento illustri vegani neri. Una lista che include attrici famose, docenti di università prestigiose, sportivi e attivisti come Christopher-Sebastian McJetters e Coretta Scott King: quest’ultima, oltre ad avere dato un contributo straordinario alla lotta per i diritti civili negli anni Sessanta, va ricordato, era anche la moglie di Martin Luther King. È stata la prima volta che qualcuno ha mostrato, in modo chiaro e inequivocabile, che i vegani neri esistono e hanno storie interessanti da raccontare.

aph ko
Aph Ko, scrittrice e teorica femminista

Un altro passaggio importante per creare questa consapevolezza è stata la pubblicazione da parte dello chef Bryant Terry del popolare libro di cucina Afro-Vegan (Random House USA Inc, 2014), un libro capace di parlare di cucina, politica e problemi razziali. Un volume che non solo veganizza le tradizioni culinarie delle comunità afro statunitensi, ma che guarda anche con interesse ai cibi e agli ingredienti che venivano utilizzati dalle comunità africane prima di essere schiavizzate e portate forzatamente negli Stati Uniti e nei Caraibi.

 

bryant terry
Bryant Terry è un famoso chef di San Francisco.
Attualmente è resident chef al Museum
of African Diaspora (MoAD) dove realizza
piatti che celebrano il connubio tra agricoltura,
salute, attivismo, arte e cultura.
Su Afro-Vegan Terry presenta un colorato e
divertente manifesto alimentare, ispirato alla
diaspora africana.
Un mix di gusti provenienti dall’Africa orientale,
dalla Giamaica con contaminazione del
Tennessee, dove viveva la nonna.
Ha ispirato vegani e onnivori con le sue rivisitazioni
creative di piatti classici realizzati con
ingredienti facilmente reperibili.

Insomma, il veganismo black è un movimento trasversale e marcatamente politicizzato, in cui l’oppressione degli animali, la schiavitù e la discriminazione contro le comunità afroamericane diventano temi strettamente interconnessi.
Il movimento riflette anche sul fatto che gli afroamericani sono affetti da obesità e diabete in misura molto maggiore rispetto ai bianchi e hanno il doppio delle probabilità di morire di infarto o aneurisma. Le comunità povere nere sono costrette spesso a basare la propria dieta su cibi industriali, tagli di carne economici e latticini. Dare alle classi meno abbienti le risorse e gli strumenti per ottenere cibi freschi, oltre che per seguire una dieta più equilibrata e con un maggiore apporto di proteine vegetali, è un modo per portare indirettamente a un miglioramento delle condizioni di vita dei più deboli. Quando i black vegan parlano di salute, non parlano solo di salute personale, ma anche di quella delle comunità svantaggiate. Ecco perché in seno al movimento sono nati negli ultimi anni molti progetti di agricoltura urbana ed educazione alimentare.
Proprio perché mangiare cento per cento vegetale è un atto politico, sono critici verso quel veganismo mainstream troppo incentrato sulla scoperta di sapori nuovi ed esotici. Quando alimenti come avocado, quinoa e jackfruit diventano popolari, qual è l’impatto per le comunità che basano la propria dieta su quegli alimenti? Diventano di colpo troppo cari per essere consumati dai locali? L’aumento della domanda ha conseguenze ambientali e sociali per le regioni dove vengono coltivati?
Se a prima vista in Italia questo dibattito sembra non riguardarci, in realtà ha molto da insegnarci. Per certi versi il veganismo black non è altro che una critica a un veganismo elitario e autoreferenziale che si concentra principalmente sul benessere personale e un invito a trasformare le proprie scelte di vita in uno strumento efficace non solo per salvare gli animali, ma anche per riflettere e provare a eliminare le differenze sociali, razziali e di genere.