Pubblicato sul numero 41 della rivista FunnyVegan
In tempi in cui le istituzioni europee a molti cittadini appaiono distanti e troppo burocratiche, nel 2019 l’Unione Europea ha messo a segno un bel risultato: in soli undici mesi è riuscita a elaborare e approvare una direttiva che mette al bando a partire dal 2021 una serie di oggetti in plastica monouso. Per chi se la fosse persa, la disposizione prova a fermare l’inquinamento marino sbarazzandosi dei dieci prodotti di plastica usa e getta più comuni sulle spiagge europee: tra questi cotton fioc, piatti e posate, cannucce e supporti per palloncini. Nel sito del Parlamento Europeo si legge infatti che gli articoli inseriti nella lista nera rappresentano il 70% dei rifiuti marini che dal vecchio continente entrano negli oceani. Malgrado la norma dia agli stati membri degli obiettivi, li lascia tuttavia liberi di scegliere i mezzi da adottare per raggiungerli. Per molte imprese produttrici di plastica monouso, è stato un fulmine a ciel sereno, soprattutto in Italia: secondo Il Sole 24 Ore il nostro paese è il maggior produttore europeo di stoviglie usa e getta, con un miliardo di fatturato per circa trenta aziende e tremila addetti.
Per di più l’Italia è uno dei paesi di punta nella realizzazione di bioplastiche, ugualmente messe al bando. Alla base della decisione il fatto che la biodegradabilità delle plastiche alternative non è stata considerata sicura: ciò che è biodegradabile in un giardino non lo è necessariamente anche in acqua. Una funzionaria che ha lavorato alla stesura della direttiva e che ha chiesto di restare anonima ha dichiarato al giornale francese Le Monde che i produttori di bioplastiche sono rimasti scontenti per il fatto di non essere stati presentati come la soluzione miracolosa al problema: “Non l’abbiamo fatto perché non lo sono”. I presidenti delle federazioni di prodotti plastici monouso italiani hanno subito denunciato i gravi danni imprenditoriali e occupazionali per le loro imprese, ma anche l’approccio sbagliato della direttiva: Marco Omboni, Presidente di Pro.mo, gruppo produttori stoviglie monouso in plastica, ha dichiarato che “il problema della dispersione dei prodotti monouso nell’ambiente è un problema di educazione, e la maleducazione non distingue tra un materiale e l’altro”.
Argomento non nuovo, a dir la verità: il Guardian ha tracciato una storia della lotta alla plastica e ha notato che già alla fine degli anni Settanta le preoccupazioni per il suo consumo eccessivo stavano portando a norme simili a quella appena passata in Europa. Norme a cui le lobby della plastica si opposero convincendo l’opinione pubblica che il vero problema erano i consumatori irresponsabili, non un oggetto progettato appositamente per essere scartato subito dopo il suo utilizzo. L’altra strategia fu osannare le doti del riciclo, malgrado la plastica sia uno dei materiali più difficili da riciclare: può essere riutilizzata solo per creare altri oggetti di qualità inferiore e solo per un numero limitato di volte. Decisamente controcorrente è invece l’opinione di Marco Gambardella, giovane imprenditore nel campo delle bioplastiche: “Alcune aziende stanno prendendo le misure necessarie per riconvertirsi. Quello che potrebbe essere un problema sarà per loro invece un’opportunità di sviluppo e innovazione”. Le alternative ai prodotti a cui diremo addio nel 2021 infatti non mancano: la bagassa, ad esempio, è uno scarto della lavorazione della canna da zucchero, all’apparenza molto simile al cartone ma di fatto ancora più ecologica e resistente, che sembra avrà grandi potenzialità nel packaging dei cibi. Le cannucce di bambù o in altri materiali green sono già una realtà, così come i cotton fioc biodegradabili. La lotta alla plastica monouso è arrivata tra l’altro anche in campi non ancora oggetto del divieto: l’azienda di cosmetici L’Oréal sta lavorando a confezioni dello shampoo realizzate con carta impermeabile, mentre il marchio di birra Carlsberg ha sostituito gli anelli per tenere unite le lattine con una speciale colla resistente e biodegradabile. Con questo semplice accorgimento l’azienda prevede di ridurre il consumo globale di plastica di 1200 tonnellate all’anno. Anche l’industria del turismo non sta a guardare: in Italia sono già numerosi gli alberghi e gli hotel che hanno deciso di non offrire più confezioni monoporzione per la colazione o i kit di cortesia per il bagno.
Box:
Dario Bressanini, divulgatore scientifico che non si tira indietro quando c’è da lanciare una provocazione intelligente, ha scritto recentemente la sua sulla campagna “No plastica”. Pur comprendendo l’utilità di slogan facili da memorizzare, Bressanini non è d’accordo sull’avversione alla plastica senza se e senza ma, e fa l’esempio dei broccoli del supermercato avvolti in una pellicola trasparente. Il chimico lombardo fa notare che i broccoli sono vegetali con una velocità di respirazione elevatissima: una volta tagliati dalla pianta e senza più l’apporto di acqua e sostanze nutritive, cominciano a consumare quelle che hanno dentro, con il risultato che nel giro di pochi giorni ingialliscono e diventano poco appetibili, rischiando di essere scartati prima ancora di essere consumati. Secondo Bressanini un broccolo confezionato in un film di plastica può essere invece conservato sugli scaffali fino a venti giorni senza perdere la qualità. Insomma, una pellicola da molti considerata scandalosa di fatto evita che un ortaggio venga gettato dopo solo alcuni giorni e andrebbe pertanto considerata un’efficace alleata nella lotta agli sprechi alimentari. Se mai ce ne fosse stato bisogno, Bressanini ci ha ricordato che la realtà è sempre più complessa di uno slogan.