In Umbria si salvano dall’estinzione varietà dimenticate. Cercandole dentro monasteri, vecchi poderi e quadri rinascimentali
L’arrivo dell’estate è di certo il momento più atteso da chi ama pesche, ciliegie e albicocche. Ma la grande varietà di colori, profumi e sapori sui banchi del verduraio non è niente davanti alla diversità frutticola del nostro paese, che però è poco valorizzata e sta lentamente scomparendo. Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale in Italia vengono attualmente coltivate non più del 10% delle varietà presenti sul territorio, molte delle quali, attestate fin dai tempi antichi, sono destinate a sparire a causa dell’industrializzazione agroalimentare, del consumo del suolo agricolo e del nostro disinteresse.
In uno scenario così desolante, il progetto Archeologia arborea di Isabella dalla Ragione ci dà la speranza che si può ancora fare qualcosa. “Negli anni ’50 e ’60 mio papà si rese conto della smemoratezza delle persone verso il proprio patrimonio botanico e culturale, ben prima che parlare di biodiversità diventasse di moda”, racconta Isabella. In quegli anni suo papà Livio iniziò a raccogliere, prima da solo, poi insieme lei, varietà di frutta che andavano perdute nell’Umbria nativa, con l’idea di salvaguardarle nella tenuta familiare. Livio e Isabella sono andati per anni alla ricerca di qualità in via d’estinzione, visitando poderi abbandonati, anziani contadini, o conventi e monasteri, luoghi di chiusura per eccellenza e pertanto in grado di conservare esemplari altrove perduti. Per rintracciare specie pressoché scomparse sono ricorsi anche a ricerche bibliografiche su testi letterari o botanici antichi, o addirittura ad attente analisi sui quadri rinascimentali in cui venivano rappresentati gli antichi frutti.
Il risultato di questo lavoro è ora ben visibile a Città di Castello, in provincia di Perugia, dove sono presenti circa 400 esemplari di diverse specie tra melo, pero, ciliegio, susino, fico, mandorlo, nespolo e melo cotogno, in 150 varietà diverse ritrovate nelle zone della ricerca. Spesso con nomi curiosi e inusuali: chi mai sentito parlare della pera volpina, del fico permaloso o della susina scosciamonaca?
Il frutteto è aperto a visite, ma guai a vedere questa tenuta come un’arca di Noè della frutta dimenticata dell’oltre Tevere, o un museo: “abbiamo salvato dall’oblio tante varietà che in un passato non troppo lontano rappresentavano il nostro paesaggio e la nostra alimentazione. Queste piante erano legate fortemente alla vita quotidiana di generazioni di agricoltori e per questo andrebbero considerate parte del patrimonio culturale di queste zone. Certo quel mondo non esiste più, ma il frutteto di Archeologia arborea è una realtà vivente, essendo costituito da piante che crescono, si ammalano, muoiono e vengono sostituite”. Salvare queste varietà è di certo un po’ come riportare alla luce un’opera d’arte perduta, ma se le si chiede se c’è un ritrovamento di cui è particolarmente orgogliosa, Isabella ha difficoltà a rispondere: “È come chiedere ad una madre qual è il figlio preferito. Ogni varietà presente nel frutteto ha una storia lunga secoli, o magari curiosa perché legata a qualche vicenda particolare. Ad esempio trovavo spesso citata nei documenti d’archivio del ‘500 e ‘600 la pera fiorentina, ma pensavo fosse scomparsa. L’ho ritrovata dopo tanti anni abbastanza casualmente ed è stato come riscoprire uno straordinario tesoro”. Per proseguire il lavoro di ricerca e mantenimento della biodiversità Isabella dalla Ragione ha creato una fondazione con l’obiettivo di valorizzare e far conoscere al mondo questo straordinario progetto. Chiunque decida di visitare la tenuta, adottarne un albero o piantare nel proprio giardino una delle loro piante darà di certo un contributo significativo.