In Italia, la trasfusione di feci viene impiegata per curare l’infezione intestinale provocata dal batterio Clostridium difficile—ma potrebbero esserci altri sviluppi.
Pubblicato su VICE il 9 giugno 2020
Gli scarti di una persona sono il tesoro di qualcun altro, si dice spesso. Ma se applicassimo questo principio allo scarto per eccellenza, la cacca? Al Policlinico Gemelli di Roma lo fanno già tra le 300 e le 400 volte all’anno per curare da un’infezione intestinale. Si chiama trapianto fecale ed è esattamente quello che sospettate: usare le feci di un donatore sano per curare un paziente malato.
Giovanni Cammarota è uno dei gastroenterologi dell’ospedale romano dietro questa terapia, e mi spiega telefonicamente che il donatore solitamente viene dall’entourage familiare, “ma non è il migliore dei sistemi, lo screening per individuare quello idoneo può durare settimane. Ecco perché dentro il Gemelli stiamo provando a creare una banca donatori.” Prima dell’intervento le feci vengono filtrate, omogeneizzate e poi “trapiantate” attraverso colonscopia, capsule o clisteri. Attualmente in Italia la trasfusione di feci avviene solo per curare l’infezione intestinale provocata dal batterio Clostridium difficile—l’unica patologia per cui c’è un’evidenza clinica di provata efficacia, e di cui, come spiega Cammarota, “oltre a causare diarree fulminanti venti volte al giorno, si può anche morire”—ma secondo il gastroenterologo da qui a cinque anni potrebbe trovare numerosi altri impieghi.
Per capire il potenziale di un trapianto fecale abbiamo raccolto le testimonianze di due persone che grazie all’intervento hanno visto migliorare drasticamente la loro vita.