Abbiamo chiesto ad alcune urbaniste femministe come cambiare le grandi città post Covid-19, e farlo in favore di una vita più comunitaria e sostenibile.
Pubblicato su VICE il 4 giugno 2020.
Questi mesi di pandemia stanno aggravando disparità sociali ed economiche già note, ma offrendo anche un’occasione per mettere in discussione molti aspetti della nostra vita che non funzionano, compresa l’architettura delle città. Non possiamo più far finta di nulla dopo che per mesi mura domestiche e quartieri circoscritti sono diventati l’unico spazio vitale possibile, e abbattere barriere (letteralmente e non) nei centri urbani potrebbe favorire una ripresa economica più rapida e sostenibile.
Oggi, però, sempre meno persone posseggono un’auto, le modifiche ai quartieri centrali in favore di un turismo di consumo ha spinto molti in periferia (spesso più simili a ghetti che a quartieri) e il mondo del lavoro è molto più precario.
Con lo scopo di rendere gli spazi delle città più accoglienti e funzionali per tutti, un movimento di architette e urbaniste propone un approccio alla pianificazione urbana intersezionale e di genere. Ovvero: per rendere una città più democratica, questa deve essere in pratica pensata per le esigenze delle donne e delle minoranze, come persone LGBTQ+, migranti, disabili, anziani e bambini—o più semplicemente: di tutti.
Se il coronavirus ha costretto a ripensare il modo in cui viviamo lo spazio pubblico, ora più che mai dobbiamo evitare che i centri abitati post-COVID accentuino ancora di più le disparità. Così, ho contattato alcune esperte di urbanistica femminista per parlare dei rischi e delle potenzialità di questo momento storico.
Considerato che in Italia una donna su tre dichiara di essere stata vittima di molestie, e che l’88 percento delle donne italiane intervistate in un studio internazionale ha detto di aver cambiato percorso per tornare a casa in seguito a molestie subite in strada, la sicurezza è un problema onnipresente.